martedì 16 dicembre 2014

Matteo Renzi su Consiglio Europeo in Parlamento - Video Discorso

PRESIDENTE.

 Ha facoltà di parlare il Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi.
  MATTEO RENZI, Presidente del Consiglio dei ministri. Signora Presidente, onorevoli deputati, è l'ultimo Consiglio europeo dell'anno 2014 quello che ci accingiamo a svolgere nella giornata di giovedì, l'ultimo Consiglio europeo del semestre italiano e presumibilmente però è soprattutto il primo Consiglio europeo non soltanto perché sarà il primo Consiglio europeo a guida Tusk e il primo Consiglio europeo con il Presidente Juncker, ma anche perché questo reca l'ordine dei lavori e questo reca il dibattito politico di questi mesi in Europa: siamo in una fase di passaggio straordinariamente delicata e difficile. Siamo nella fase in cui l'Europa è a un bivio.





   Io sono uno di quelli che ama molto le frasi e le parole utilizzate da grandi personaggi in quest'Aula, da grandi personalità nel dibattito di Camera e Senato, da grandi personalità nel dibattito dell'Assemblea costituente e mi tornavano in mente le parole pronunciate il 29 luglio 1947 da colui il quale di lì a qualche mese sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, in cui si spiegava con grande lucidità e, lasciatemi dire, con grande senso della profezia: «Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell'Europa d'oggi, smarrita e incerta sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l'Europa».



 Era il 1947 quando Einaudi proferiva queste parole. Di lì a poco l'Europa avrebbe vissuto se stessa come il terreno di battaglia della guerra fredda; l'Europa avrebbe visto crescere intorno al carbone e all'acciaio una comunità economica che era economica ma era anche una comunità, non era semplicemente un contratto o un patto: era un'intesa profonda. Di lì a poco l'Europa avrebbe visto crescere i muri, il muro di Berlino che divideva in due le Germanie ma che divideva sostanzialmente in due l'Europa. Eppure quel richiamo all'ideale umano fatto dal Presidente Einaudi dimostrava quanto fosse grande, ampia, bella, straordinaria la sfida che il continente aveva di fronte a sé.





Credo che potrebbe sembrare azzardato sostenere che viviamo tempi analoghi: allora c'era stata una guerra fratricida e noi, proprio grazie all'Europa, veniamo da settant'anni di pace. Allora c'era una situazione economica che doveva fare i conti con una ricostruzione post-bellica devastante. Oggi siamo in una realtà di congiuntura economica non favorevole ma certo non paragonabile alla situazione in cui stavamo settant'anni fa. Eppure possiamo, a mio giudizio, vivere la fase che si è aperta con il rinnovo delle elezioni e anche, lasciatemelo dire, con il semestre di Presidenza italiana, come l'occasione in cui o cambiamo la direzione dell'Europa tornando all'ideale oppure rischiamo forse noi di essere perduti, di aver perduto l'Europa sicuramente.




 Ecco perché, nell'esprimere queste brevi considerazioni, vorrei molto brevemente enucleare i due punti chiave della discussione che giovedì avremo in Consiglio europeo – il tema degli investimenti ed il tema della politica estera –, come, però, il frutto di una novità che si è prodotta in questi mesi nel dibattito politico europeo, che può piacere o meno, che vede anche in quest'Aula posizioni diverse: da un lato, c’è chi ritiene che si sia fatto molto, dall'altro, che non si sia fatto niente, ma tutti siamo convinti che oggi ci siano due elementi innovativi.



   Il primo: l'Europa oggi ha fatto una scelta politica, forse, non sufficiente. Dipenderà molto da Juncker e dai suoi collaboratori se l'ampiezza di questa sfida sarà giocata fino in fondo e sarà percorsa fino in fondo. Si è scelto un Presidente, in questi mesi, che fosse espressione della volontà popolare, oltre che delle maggioranze parlamentari. Questo impone alla politica di fare il suo mestiere, di non lasciare, cioè, l'Europa ai tecnocrati, di non lasciare l'Europa alle burocrazie; e questo comporta che, ad esempio, l'Italia abbia smesso di considerare la politica estera come un giochino da addetti ai lavori.




 Quando abbiamo presentato la candidatura per l'Alto rappresentante, in molti hanno detto: ma cosa ci interessa andare a fare in Europa, andare a dire in Europa, andare a discutere in Europa sulle questioni di politica internazionale ? In realtà, noi sappiamo che vi è un grande bisogno, anche per le considerazioni che l'onorevole Vito faceva poc'anzi – alle quali il Governo corrisponde da subito, impegnandosi a partecipare ai lavori di Commissione –, ma il passaggio chiave è che, se c’è la politica nel tempo che stiamo vivendo, è l'Europa che ha bisogno di cambiare direzione nella politica estera, non solo l'Italia. La scelta di questi mesi di affrontare la grande sfida dell'Alto rappresentante come Governo italiano attraverso la designazione dell'onorevole Mogherini va esattamente in questa direzione.




 È sufficiente ? No, però è importante sottolineare come, ad oggi, temi come il Mediterraneo, i Balcani, la gestione di una politica estera degna di questo nome, non siano più un capriccio di qualche esperto di geopolitica o di diplomazia internazionale, ma sia una evidenza del dibattito politico interno. Guardate cosa è accaduto ieri: se il ricorso alle minacce, più o meno folli, di terroristi di matrice religiosa o sedicenti tali, arriva a scuotere la placida Sidney, se siamo a questo livello, è del tutto evidente che la comunità internazionale ha bisogno di avere uno sguardo condiviso e unitario sui grandi temi di politica estera. Dunque, la politica come centro dell'azione dell'Europa.


 Questo porterà nella discussione di giovedì a riflettere nuovamente sul tema dell'Ucraina. Credo che sia ormai evidente che il doppio principio per cui invitare la Russia ad uscire dall'Ucraina per tornare al tavolo delle grandi potenze internazionali e affrontare insieme, a partire dalla Siria, i dossier più importanti è una posizione che, ormai, non è più una posizione soltanto dell'Italia, ma è condivisa. E si è finalmente capito, anche nel dibattito politico internazionale, che se le sanzioni possano essere state, nel momento della reazione, il primo, naturale gesto per esprimere il profondo sdegno per l'occupazione di parte dell'Ucraina da parte della Russia, è altrettanto vero che non si fa una politica estera semplicemente basandosi sulle sanzioni. Credo che questo sia finalmente patrimonio comune e condiviso da tutti.

   Ma, in questo scenario, la discussione di giovedì dovrà essere una discussione molto chiara, molto precisa, spero anche molto breve, perché Tusk ha annunciato che i Consigli europei si terranno in una sola giornata, suscitando l'entusiasmo di alcuni di noi, ma dovrà essere una discussione molto, molto, molto rilevante sui prossimi passaggi che abbiamo di fronte. Pensate a cosa è accaduto in questo 2014; pensate a cosa è accaduto nel Mediterraneo: il passaggio da Mare Nostrum a Tritone è il tentativo di fare della questione immigrazione, ma più in generale della questione Mediterraneo, non soltanto il luogo della politica italiana, ma il luogo della politica europea.




 Pensate a cosa sta accadendo con la richiesta di adesione dell'Albania o, meglio, con il passaggio a status di candidato dell'Albania, che è l'ennesimo segnale di un processo di allargamento che deve toccare anche i Balcani, segnatamente Serbia, Montenegro, Albania, e che in prospettiva avrebbe dovuto, e io spero dovrà, comprendere la Turchia, alla condizione naturale che si rispettino i principi europei di libertà e democrazia, come in tutti i negoziati abbiamo sottolineato ed evidenziato, e che, naturalmente, non sono compatibili con l'arresto della libera stampa o dei giornalisti dell'opposizione.
  

Ma in questo primo canale di riflessioni vorrei che il Parlamento italiano avesse un sentimento di orgoglio e consapevolezza, la politica estera non è più, non è soltanto una questione da addetti ai lavori e se la Commissione Juncker farà il proprio lavoro, l'Europa tornerà ad avere un ruolo e se la Commissione Juncker farà il proprio lavoro, quel premio Nobel per la pace che ha inorgoglito e fatto lacrimare molti di noi per la gioia, l'entusiasmo e, in qualche modo, anche un sentimento di orgoglio, non sarà un premio Nobel alla carriera, sarà il premio Nobel per la pace destinato al futuro, in un mondo dove le difficoltà e anche le inquietudini sono, oggi, a disposizione di qualsiasi canale informativo. Nessuno potrà mai dire: io non sapevo, io non c'ero, quando nel centro dell'Africa o nel cuore dell'Oriente donne sono violentate o vengono private della propria libertà, giornalisti vengono sgozzati o bambini vengono costretti a combattere. Nessuno potrà più dire: io non sapevo, nel tempo della comunicazione globale.






 Quindi, giovedì il primo tema è questo, ma la sfida, anche alla luce del semestre europeo, è quella che la Commissione torni a fare politica, dico: torni a fare politica, perché non sempre è accaduto questo, nei dieci anni precedenti. Anche in recenti dibattiti parlamentari abbiamo sentito, da ultimo nel question time, parole molto dure sul ruolo della Commissione in questi anni, magari provenienti anche da chi quella Commissione aveva sostenuto o votato. Penso che sia importante che tutti noi facciamo uno sforzo, come sistema Paese, per recuperare credibilità e dignità e penso che sia importante che tutti noi facciamo uno sforzo, come sistema Paese, per essere in grado di incidere su un'idea di Europa che non sia semplicemente un luogo nel quale si fanno i parametri, un luogo nel quale si rispettano i vincoli, un luogo nel quale si misurano le percentuali, ma nel quale si perde quell'ideale a cui Luigi Einaudi faceva riferimento nel 1947 con parole che potrebbero essere scritte ieri, pronunciate oggi e, soprattutto, sofferte domani.






 C’è un secondo punto, che è quello probabilmente più importante, e che riguarda la presentazione del piano di investimenti di Jean-Claude Juncker. Su questo sono molte le voci che si sono alzate, qualcuno lo ritiene un passo decisivo, fondamentale, qualcuno lo ritiene un topolino partorito da una montagna di dichiarazioni e di attese. Io credo che dobbiamo prendere atto che, come in questi sei mesi l'Europa ha cambiato il proprio approccio o, più correttamente, ha iniziato a cambiare il proprio approccio, cercando di investire di più in politica, è altrettanto vero che dobbiamo evidenziare come nella politica economica ci siamo ricordati che l'acronimo comprende tre lettere, il Patto di stabilità e di crescita ha anche la «g» di growth e non soltanto la «s» di stability.



È stato un elemento rilevante di novità, perché vorrei ricordare qui che quando venimmo in Parlamento, nel mese di giugno, per dire che avremmo posto il tema della flessibilità e della crescita, pochi pensavano che avremmo avuto successo; aggiungo che quando lo abbiamo fisicamente posto, anche pochi tra i nostri colleghi sono stati disponibili a farci da sponda. Eppure, oggi, anche alla luce di ciò che sta accadendo nel dibattito economico internazionale, ritengo il G20 australiano di grandissima importanza nell'aver impostato e centrato il tema della crescita come fenomeno rilevante per tutta la comunità economica e non soltanto per i singoli Paesi, ma per tutta la comunità economica globale.




 Ebbene oggi, aver messo al centro la crescita porta per la prima volta ad immaginare che i contributi che gli Stati membri daranno alle istituzioni europee per alcuni investimenti giudicati meritevoli da parte delle stesse istituzioni europee, bene, questo tipo di contributo sarà finalmente scorporato dal Patto di stabilità. È un primo passo, non è sufficiente per noi; noi pensiamo che il passaggio immediatamente logico successivo sia consentire agli Stati membri di scorporare dal Patto i propri investimenti su proprie opere pubbliche anche pronti ad una verifica sulle singole opere con le istituzioni comunitarie.






 La nostra battaglia tradizionale storica, lo sapete, è quella di poter scorporare gli investimenti: se io voglio prendere i soldi per metterli su una scuola questo non è un costo, questo è un investimento e non c’è nessun patto di stabilità finanziario che possa mettere in discussione il patto di stabilità architettonico delle scuole dove stanno i nostri figli.




 Eppure ci troviamo qui, in questa situazione, con queste regole, perché in passato anche questo Parlamento ha accettato – con «questo Parlamento» non mi riferisco tanto a questa legislatura ma a questa Aula, così carica di storia e di significato – e ha fatto delle scelte sulle quali noi siamo costretti a lavorare non potendo ovviamente venire meno in modo autonomo senza minare il prestigio, la credibilità e la reputazione del nostro Paese.



   Ma, questo è il punto centrale, oggi è accaduto qualcosa di nuovo. In questi sei mesi è accaduto qualcosa di nuovo. Per la prima volta si dice: okay, se procedi a degli investimenti che siano investimenti condivisi, puoi scorporare dal Patto. Non è sufficiente per me, continuerò all'interno del partito politico europeo di cui faccio parte, che su questi temi ha ancora una timidezza incomprensibile, e all'interno del Consiglio europeo, a combattere perché gli investimenti che servono a ridurre la bolletta energetica in Italia, che cuba circa 5 miliardi di euro, possono essere esclusi dal Patto di stabilità; che gli investimenti in banda larga possono essere esclusi dal Patto di stabilità; così come gli investimenti in edilizia scolastica o per le nostre periferie, e una delle voci più rilevanti dal punto di vista simbolico della nostra legge di stabilità è proprio l'emendamento che è stato introdotto al Senato allo scopo di intervenire su un progetto urbanistico dentro le periferie.

   Si salvano le periferie non con le manifestazioni e con i cortei ma con i campi sportivi, con l'urbanistica, con un'edilizia degna di questa nome e con la presenza di un volontariato che sia volontariato e associazionismo e che non sia un finto terzo settore che cerca di lucrare sulle disgrazie in modo inqualificabile.






 In questo scenario, e ho finito, i due temi di discussione profonda che noi troviamo giovedì sul tavolo del dibattito del Consiglio europeo saranno dunque: la politica estera intesa come capacità dell'Europa di avere una propria dignità e la politica degli investimenti intesa come novità. Finalmente si smette di parlare soltanto di chi fa i compiti e chi no, di chi ha lo 0,1 in più o in meno, di chi è più attento alla austerity che alla salute dei propri figli.



   Però, rinviando naturalmente un bilancio del semestre al prossimo appuntamento parlamentare, rinviando il bilancio del semestre al discorso del 13 gennaio a Strasburgo in cui concluderemo i lavori della nostra Presidenza, rinviando un bilancio ad occasioni più articolate, essendo questo semplicemente il momento della presentazione del Consiglio di giovedì, permettetemi di dire che, se vale il principio einaudiano dell'ideale a disposizione dell'Europa, dobbiamo avere il coraggio di dirci che l'Italia dei prossimi anni deve poter giocare alcune carte in più nel dibattito europeo.



   Il Ministro della cultura, nel momento in cui abbiamo ricevuto la lettera firmata Juncker e Timmermans – anche questo è interessante, perché la lettera viene firmata dal primo Vicepresidente trattandosi di un Governo di coalizione, è un richiamo anche questo, simbolico, alla politica –, mi ha sottolineato ed evidenziato come sia incredibile che nei dieci punti citati dal Presidente e dal primo Vicepresidente non ricorra una sola volta la parola cultura.







   È vero, io sono d'accordo con lui, è un limite grosso, perché la cultura non è semplicemente la gestione di siti museali o il tentativo di utilizzare meglio le risorse di cui disponiamo e di cui la storia ci ha fatto prezioso dono. La cultura è, innanzitutto, un senso dell'identità e, se l'Europa rinuncia alla cultura, l'Europa rinuncia a se stessa. Ma – questo è ciò che penso – noi abbiamo bisogno di farlo soltanto se recuperiamo una dimensione di credibilità nazionale.



  Nella discussione di ieri, dopo il lancio della candidatura dell'Italia e in particolar modo di Roma alle Olimpiadi del 2024, ho notato come vi sia stata una reazione davvero sorprendente che è profondamente trasversale, che incrocia una parte delle opposizioni con una parte della maggioranza, che incrocia i guru dell'antipolitica con i profondi pensieri lunghi di strateghi dell'attualità contemporanea. Tutti a dire: impossibile fare le Olimpiadi in Italia, perché c’è chi ruba.



   Se c’è chi ruba, si manda in galera. Se c’è chi ruba, si persegue. Se c’è chi ruba, si va avanti senza ricorrere a rinunciare, senza ricorrere a rinunciare per esempio a perseguire come parte civile i tesorieri che rubano. Se si pensa che qualcosa non funzioni, lo dico perché è stato detto...




 DAVIDE CAPARINI. Proprio tu lo dici !




 MATTEO RENZI, Presidente del Consiglio dei ministri. Proprio tu lo dici: sì, e mi riferivo esattamente a chi è intervenuto. Se c’è chi ruba (Commenti del deputato Giancarlo Giorgetti)...se c’è chi ruba, vedo l'entusiasmo del capogruppo Giorgetti, lo capisco, dell'autorevole personalità Giorgetti. Credo che, se c’è chi ruba, bisogna avere il coraggio di intervenire, di mandarli in galera...



   FEDERICO D'INCÀ. Magari, fallo subito !







 MATTEO RENZI, Presidente del Consiglio dei ministri.. ..e di alzare le pene per evitare i patteggiamenti e anche di insistere in un'idea di Paese per il quale chi fa politica non smercia diamanti, ma chi fa politica prova a recuperare la propria dignità proponendo un sogno per il Paese (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l'Italia, Sinistra Ecologia Libertà e Per l'Italia-Centro Democratico).




 Allora, le Olimpiadi in Italia non sono semplicemente una manifestazione sportiva, sono un sogno, sono un'idea, sono un progetto che deve essere rigoroso, che deve essere tenace, che deve essere di alta qualità; ma sentirsi dire « l'Italia non può fare questo perché qualcuno non è all'altezza di questa sfida», frustra non i desideri di chi è in quest'Aula, ma frustra le speranze dei nostri concittadini.
  Chiudo, allora, pensando a dov'ero qualche giorno fa. Ho citato la Turchia, e ho citato la Turchia anche per ricordare un fatto di cronaca accaduto dopo, che mi ha molto colpito; quando sono stato a Istanbul con un viaggio di ventiquattro ore fra Ankara e Istanbul la settimana scorsa, ho scelto di andare in un posto simbolico, nel terzo ponte del Bosforo.



È un ponte che in queste ore, in questi giorni, in queste settimane viene realizzato a tempi record per la nostra burocrazia (diciamo che lo costruiscono nel tempo necessario per noi per convocare la Conferenza dei servizi), motivo per il quale sarà urgente e necessario che, una volta terminata la fase delle riforme costituzionali, il Senato torni rapidamente a discutere della delega sulla pubblica amministrazione che si inserisce esattamente in questo profilo.









Quel ponte è un ponte simbolico, è un ponte che lega l'Europa all'Asia, è un ponte realizzato dalle autorità turche, è un ponte che ha bisogno della tecnologia made in Italy, dell'ingegneria made in Italy, è un ponte che nasce al Politecnico di Milano. È un ponte che si affida e si avvale della collaborazione di cinque, fra i tanti, ingegneri che hanno vinto un premio organizzato dalla singola azienda che va a prendere i migliori, i più bravi nelle singole università italiane, perché là dove c’è da costruire innovazione, il mondo chiede l'Italia.




 L'Italia può rannicchiarsi e non giocarsela questa partita, come vorrebbero fare quelli che sono contrari alle Olimpiadi, quelli che vorrebbero fare quelli che dicono: no alla politica estera, è roba da addetti ai lavori; quelli che ci dicono: rinunciamo. Ma l'Italia ha nel suo DNA la capacità di investire sull'innovazione, la tecnologia e l'alta qualità e, se mi permettete – ed è davvero l'elemento conclusivo – l'Italia è anche capace di costruire i ponti, di costruire i ponti fisici.



  La qualità, l'innovazione di quel ponte è meravigliosa. Ma per chi, come noi, ha iniziato a fare politica con Giorgio La Pira, quella frase, «abbattiamo i muri, costruiamo i ponti», è una frase che vale molto oggi in Europa.






 Venticinque anni fa crollava il muro di Berlino, venticinque anni fa crollava il muro che divideva due Europe e due Germanie. Il compito del nostro Paese è quello di costruire i ponti non di abbattere i muri, ma costruire i ponti significa tornare a credere che si possa oggettivamente realizzare qualcosa di grande per il nostro Paese, senza essere tifosi non di un Governo o dell'altro, ma tifosi contro l'Italia.






 Ecco perché i due elementi di novità che il Consiglio europeo affronterà giovedì, la politica estera come luogo di dignità della politica comunitaria e il piano degli investimenti, che certo si può migliorare, che certo dovrà essere approfondito, come il primo segno in cui finalmente torniamo a discutere di crescita e non solo di austerità, sono due passi in avanti rilevanti. Ma senza l'ideale al quale facevo riferimento, introducendo l'intervento, non c’è spazio per nessuno e non c’è spazio per l'Italia e noi, in nome dell'ideale, porteremo un'Italia più forte e più credibile all'interno delle istituzioni europee (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l'Italia, Nuovo Centrodestra, Per l'Italia-Centro Democratico e Misto).



   CARLO SIBILIA. Amen !




 PRESIDENTE. Grazie, Presidente Renzi. Dichiaro aperta la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri.




 È iscritto a parlare il deputato Marco Causi. Ne ha facoltà.




 MARCO CAUSI. Grazie Presidente. Mi permetta, Presidente Boldrini e Presidente del Consiglio dei ministri, di cominciare con questa osservazione: a me sembra ancora insufficiente in Italia, la comprensione della storica e profonda battaglia politica che è in corso in Europa. Tre schieramenti si confrontano in Europa: da un lato, i popolari, ma soprattutto i Paesi del nord, che sostanzialmente dicono che va tutto bene così; poi, gli antieuropeisti, il cui richiamo politico-demagogico cresce a vista d'occhio con la crisi e con la disoccupazione; poi i socialisti e i democratici, che vogliono un'Europa migliore, più orientata alla crescita e all'occupazione.


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