giovedì 15 ottobre 2015

Matteo Renzi au Consiglio Europeo - Video Discorso in Parlamento



Abbiamo detto che gli hotspot hanno un senso insieme alla ricollocazione e alla politica di rimpatrio. I primi 19 ragazzi eritrei che hanno lasciato Lampedusa (il Ministro dell'interno è andato, quel giorno, in quella terra così bella per salutarli) non sono 19 numeri in meno nelle statistiche del nostro Paese: sono l'inizio di un grande, grande, grande progetto politico, che è quello che l'Unione europea ha un valore condiviso anche sui temi dell'immigrazione, che l'Unione europea non è soltanto un indice di bilanci, che l'Unione europea non è soltanto lo spread, che l'Unione europea non è soltanto una serie di numeri affastellati dentro complicati documenti, che leggono solo gli addetti ai lavori.

  Mi piacerebbe pensare di poter dire che l'Unione europea ha un'anima e la difende e la preserva e cerca, di conseguenza, di constatare un elemento oggettivo: che oggi il centro dell'Europa è la sua periferia, che oggi il cuore dell'Europa è il suo confine e che oggi, paradossalmente, la mappa dell'Europa, se viene messa a fuoco, ha un valore maggiore sulle sue frontiere che non nel suo cuore.

  Questo io credo sia il primo punto di discussione giovedì. Sei mesi fa queste cose le dicevamo da soli o con pochi altri. Penso soprattutto a Malta. Adesso le diciamo in compagnia più ampia, non ancora in maggioranza o ad una unanimità, che non c’è, evidentemente. È l'Europa che costruisce i muri, che fa parte, come noi, dell'Europa a 28.

  E sarebbe molto interessante che, prima o poi, il nostro Parlamento discutesse e riflettesse anche al proprio interno, su un principio: negli ultimi vent'anni noi abbiamo allargato l'Europa da 15 a 28 Paesi. Io continuo a pensare, fuori da ogni diplomazia, o che sia stato un allargamento troppo grande o che sia stato un allargamento troppo piccolo. Cerco di spiegarmi meglio. L'Europa a 28, così come è, o è troppa o è troppo poca. Se vogliamo continuare in questa direzione, dobbiamo aprirci innanzitutto allo scenario che, nel corso dell'ultimo secolo, ha sempre scatenato conflitti, vale a dire l'area dei Balcani: la Serbia, l'Albania, il Montenegro. E naturalmente, viene naturale l'elemento di riflessione che collega la Turchia e a ciò che sta avvenendo in queste ore in quel Paese.

  Dunque, chiudo il primo punto, prima di entrare nel secondo, più legato alla Turchia, al Mediterraneo e agli scenari geopolitici, per dire che sulla questione immigrazione il Governo chiede al Parlamento semplicemente una constatazione: ciò che abbiamo fatto in questi mesi (naturalmente, si può sempre fare meglio, si può sempre fare con maggiore attenzione, con maggiore determinazione, con maggiore decisione) è però l'orizzonte corretto nel quale l'Unione europea, e non soltanto l'Italia, dovrebbe muoversi.

  Oggi, che ci stanno arrivando anche altri Paesi, che nel corso degli ultimi mesi hanno cambiato idea, è arrivato il momento per noi di riflettere in modo ancora più efficace e più incisivo.

  Qual è la politica strategica che noi abbiamo sul Mediterraneo e nel Medio Oriente ? Perché questo è il secondo punto di discussione. Confesso che nella discussione con i partner europei e non soltanto con loro, in questi primi venti mesi di azione di Governo, più volte mi sono trovato di fronte a scelte dettate – mi è parso – più dall'esigenza di dare una risposta immediata alle proprie opinioni pubbliche, che non a una raffinata elaborazione di politica estera. E tutte e tutti noi sappiamo, indipendentemente dal colore politico, che alcune delle scelte che hanno caratterizzato questo quadrante di mondo, in primis la Libia del 2011, paiono essere inserite in questa logica.

  Si dà una risposta immediata, si pensa che la risposta immediata possa risolvere il problema.

  Noi, come Italia, abbiamo cercato, dal primo giorno dell'azione del Governo, di affermare una piccola cosa, che ci sembra, però, una grande verità: il Mediterraneo è il cuore dei prossimi decenni di sviluppo dell'Italia e dell'Europa. Il Mediterraneo è il centro: la prima visita ufficiale fatta dal Governo non è stata a Parigi, non è stata a Berlino, non è stata a Londra, non è stata a Francoforte, non è stata a Washington, non è stata a Mosca, è stata a Tunisi. E con quanta gioia – credo – tutte e tutti abbiamo accolto la notizia del Premio Nobel per la pace dato a quattro personalità della società civile tunisina, autori di un cammino che forse oggi è più unico che raro: il cammino della democrazia nel Mediterraneo (Applausi).

  Ma non basta, non basta, a mio sommesso avviso, riconoscere e constatare che quella intuizione era un'intuizione giusta. Occorre oggi avere una strategia che non sia soltanto una reazione. E avere una strategia che non sia soltanto una reazione impone di prendere atto – perlomeno, questa è la lettura che noi diamo – che esiste un blocco uniforme, nel senso di un blocco che non ha soluzione di continuità, ma che è molto frastagliato, frammentato e variegato al proprio interno, che parte dall'Afghanistan e arriva all'Africa occidentale e che è unito da un filo rosso, che è il fanatismo e l'estremismo religioso, che comportano e richiamano interventi di natura militare terroristica. Questo è l'elemento con il quale noi facciamo i conti.

  Poi, lo puoi chiamare ISIS, ISIL, Al Qaeda, Boko Haram; puoi partire dai talebani e arrivare fino all'università di Garissa, in Kenya; puoi scegliere singole aree di intervento sulla base dell'impressione dell'opinione pubblica, ma l'elemento chiave con il quale dobbiamo fare i conti è che dall'Afghanistan alla Nigeria esiste un blocco, molto frammentato al proprio interno e diversificato – come è ovvio che sia –, contro il quale una grande coalizione internazionale è assolutamente necessaria, innanzitutto in termini educativi e culturali per le prossime generazioni, poi, naturalmente, in termini di aiuti allo sviluppo, di investimento sul futuro e naturalmente in termini di lotta contro l'estremismo e gli atti di terrore. Se noi non riconosciamo che il problema è più vasto del singolo intervento, ci troveremo tutti i giorni a discutere di un problema diverso, che le singole opinioni pubbliche, o forse l'opinione pubblica internazionale, ci presenteranno.

  Il tema dell'immigrazione è stato posto alla nostra attenzione in modo molto forte nell'estate del 2015 e ha suscitato anche reazioni che, a mio giudizio, resteranno nella piccola cronaca della sociologia politica. Come è possibile che vi siano leader politici che, nel giro di due mesi, passino dal dire: «Tutti a casa loro !» a: «Li accolgo nel mio bilocale» ? Appartiene al mistero della sociologia politica, nel quale non mi addentro (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Area Popolare (NCD-UDC), Scelta Civica per l'Italia e Per l'Italia – Centro Democratico e di deputati del gruppo Misto). Ma il dato di fatto vero è che questa realtà non si risolve con atti di buonismo, tipo «Li ospito nel mio bilocale». Si risolve con una raffinata operazione di politica estera, che richiede generazioni, che si misura, come impegno, sui mesi, non sui giorni, e che deve prendere atto che o ci sono una visione e una strategia o sarà sempre una reazione tipica di chi «surfa» sull'istante, di chi è abituato ad avere una reazione sulla base di ciò che dice il giornale, l'ultimo lancio di agenzia o la televisione, che ha il rullo di notizie 24 ore su 24. Questo è il punto fondamentale.

  Oggi discutiamo di Siria. Oggi discutiamo di Siria, come ieri discutevamo di Libia, come discutevamo di Egitto, come discutevamo, qualche mese fa, di tante e tante realtà diversificate. Ma qual è la posizione dell'Europa su questi temi ?

  Io credo che qui si giochi il ruolo della credibilità italiana. E, da questo punto di vista, vorrei che fosse chiaro che il nostro problema non è a quali formati partecipiamo nelle riunioni internazionali. Lo dico perché ho sentito delle polemiche abbastanza stravaganti su questo: vi tengono fuori dal formato «cinque più uno». Sì, perché qualche Governo, qualche anno fa, è stato tenuto fuori, forse per scelta, dal formato delle discussioni iraniane. Io credo che allora quel formato fu un errore e recuperare la scelta di allora non sarà la cosa più semplice. Ci impegniamo a farlo, con l'aiuto di tutti, con l'aiuto di un sistema Paese, non cercando di dividersi, ma cercando di dire che qualunque fosse il colore di quel Governo che allora fu tenuto fuori, il nostro compito è quello di tornare dentro tutti i formati importanti che ci sono. Ma non è il formato delle discussioni di politica estera che cambia la storia della politica estera: è la credibilità di un sistema di sviluppo che tenga insieme una rinnovata stabilità del Paese e una capacità di utilizzare il soft power che l'Europa e l'Italia hanno per individuare finalmente una strategia che non sia di corto respiro.

  Insomma, se qualcuno immagina di risolvere il problema della Siria dicendo «stamattina mi alzo e decido che facciamo i bombardamenti lì», auguri e in bocca al lupo ! Ma non risolverà il problema. La Libia sta lì a dimostrarlo. E, attenzione ! Commette lo stesso errore – mi permetto di dirlo con rispetto per le opinioni di tutte e di tutti – chi oggi immagina, dopo aver teorizzato l'esclusione della Russia da tutti i formati, arrivando a dire a noi che facevamo un errore ad andare il 6 marzo al Cremlino a parlare con Putin per cercare di riportarlo nella discussione del Mediterraneo (questo era l'obiettivo della missione italiana al Cremlino del 6 marzo dello scorso anno) – di appaltare totalmente la questione della Siria alla Russia e ai suoi alleati, dimenticando gli ultimi sei mesi. Non si risolvono i problemi internazionali con soluzioni spot, ma costruendo occasioni di dialogo e di confronto, le più ampie possibili, partendo da un dato di fatto, ossia che l'accelerazione che c’è nella vita di tutti i giorni, che c’è nella discussione dei metodi di comunicazione, che c’è nella politica, che c’è nelle forme della politica, c’è anche nel nuovo ordine internazionale. Sta cambiando il mondo con una velocità che è impressionante. Cambia la geografia. I confini che sono usciti dalla Seconda guerra mondiale, talvolta improntati a criteri di divisione molto legati all'autorità e all'autorevolezza – più all'autorità che all'autorevolezza –, magari di singoli dittatori, stanno venendo meno. E, di fronte a questo scenario, nessuno ha soluzioni prestabilite o «prescodellate». Occorre fare la fatica della politica estera, perché è una fatica la politica estera ! Ma è riconoscersi titolari di una visione, Mediterraneo e Medio Oriente come centrali – e l'Italia l'ha fatto – ed essere capaci di stare dentro tutte le partite che sono le partite chiave. La partita dell'indipendenza energetica dell'Egitto è un pezzo della stabilità di quell'area del quadrante. La partita della crescita educativa nei Paesi subsahariani, magari con scambi universitari e con borse di studio, è un pezzo della scommessa di quello che sarà, da qui ai prossimi anni, uno dei motori del mondo. Usciamo dalla retorica banale. L'Africa, nei prossimi vent'anni, sarà uno dei motori del mondo. Già oggi alcune aree africane hanno percentuali di crescita superiori al sud-est asiatico. Ma per farlo, occorre uscire dalla volontà di rinfacciarsi reciprocamente singole scelte politiche. Occorre avere la forza di dire che siamo un grande Paese, l'Italia, che sta dentro un continente incerto. Infatti, è incerto un continente che ha accolto vent'anni fa dei Paesi perché ha tirato giù un muro e vede quegli stessi Paesi ritirare su i muri. È un fenomeno che resterà scritto nei prossimi libri di storia. Sta cambiando l'idea stessa di identità europea. L'identità europea ovviamente è nata per il grande sogno dei padri costituenti e, non a caso, nel 2017 vorremmo dedicare un'attenzione particolare a ricordare il Trattato di Roma del 1957.

  Ma poi ha avuto un momento chiave, all'inizio degli anni Novanta quando, dopo il crollo del muro di Berlino nel novembre 1989, si è aperta una stagione nuova e il processo di allargamento ha consentito di coinvolgere alcune realtà che non avevano conosciuto la pace, la democrazia e il benessere e quelle realtà lì, oggi, o almeno una parte di queste, teorizzano la propria identità in alcuni casi costruendo un nemico: la Russia. Ed è una cosa impensabile costruire come identità un proprio avversario, il principale vicino di casa. Ma contemporaneamente immaginano di poter bloccare i flussi della storia, tirando su un muro, quando abbiamo sempre visto che un muro, che dovrebbe difenderti, finisce per intrappolarti e quando abbiamo sempre visto che la storia è più forte e più alta dei muri.

  Ecco perché – e vado a concludere – questa seconda parte del dibattito, che però è propedeutica alla discussione sull'immigrazione, dovrebbe essere in grado di alzare le aspettative dell'Unione europea. Certo, ho fatto un discorso molto teorico, privo, forse, della capacità di produrre valore che hanno le emozioni e quanti di noi e quante di noi, vedendo le immagini di ciò che è accaduto in Turchia, hanno provato delle emozioni. Qualcuno che ha fatto esperienze nei movimenti giovanili dei partiti è sicuramente andato con la mente a ciò che è accaduto in Norvegia, qualche anno fa, in una dinamica totalmente diversa, vorrei essere chiaro, in un Paese che viveva e vive una stagione diversa dalla Turchia di oggi. Ma quei selfie sul pullman, sul treno, quelle immagini dei candidati che qualche ora prima di morire in quel modo mostrano il loro sorriso e la loro voglia di partecipare alla vita politica del proprio Paese, anche questo suscita emozioni. Quello che io contesto è che le emozioni non diano seguito a una politica strategica. L'Europa ha bisogno di questo. L'Europa non può limitarsi a rincorrere costantemente le emozioni di turno e non può pensare che la priorità vari di giorno in giorno sulla base delle priorità che ha una redazione di giornale. È giusto che la redazione di un giornale dia ogni giorno una notizia diversa; la politica europea, la politica estera, i singoli Paesi hanno la necessità di avere un atteggiamento diverso.

  Naturalmente il dibattito del Consiglio europeo affronterà anche altre questioni che – si tratterà, però, di un Consiglio europeo abbastanza breve, uno di quelli che finiscono in nottata, magari in serata – investono problematiche su cui avremo modo di tornare. Sul rapporto dei «quattro presidenti» che qualcuno chiama dei «cinque presidenti» – stanno crescendo i presidenti che lo vogliono firmare – bisognerebbe far sì che crescesse la volontà dei Governi di individuare quello strumento come uno strumento degno di questo nome per una politica davvero unitaria a livello europeo. Noi siamo pronti a fare quella discussione, abbiamo portato delle proposte, il Ministro Padoan, anche recentemente in Lussemburgo, ha rilanciato una specifica misura contro la disoccupazione temporanea. Il Ministro degli esteri ha immaginato di poter ospitare a Roma, nei prossimi mesi, nel 2017, degli appuntamenti ad hoc per riflettere sull'Unione europea dei prossimi anni, partendo dai sei Paesi fondatori.



  Possiamo discutere di tutto e di tutti; c’è un dato di fatto, però, oggettivo: ogni giorno che l'Italia mette un tassello nel complicato mosaico delle riforme, l'Italia acquista più diritto e più credibilità per dire una cosa molto semplice, che si può ragionare di governance, di rapporto dei «quattro presidenti», aggiungere un presidente, toglierne un altro, ma c’è un dato di fatto, la politica economica europea di questi anni non ha funzionato. Possiamo dirlo come ci pare, è stato fondamentale il ruolo della Banca centrale europea per consentire di avere non soltanto il QE, ma una stabilità; date le regole del gioco, la Banca centrale europea ha fatto un lavoro meraviglioso.

  È stato importante il lavoro di risanamento che tante e tanti hanno fatto a vario livello, ma il dato di fatto oggettivo è che, dal 2008 al 2015 – emerge in tutta la forza nelle prime analisi che studiano la legacy di politica economica del Presidente degli Stati Uniti, Obama –, gli Stati Uniti hanno avuto la forza di tornare alla crescita economica, l'Europa no. E l'Europa non avrà un futuro se continua ad immaginare semplicemente di puntare sui mercati emergenti – a maggior ragione se questi mostrano dei segnali di rallentamento in prospettiva – salvo poi non investire su se stessa, come una parte maggioritaria del pensiero politico, culturale ed economico europeo ha voluto fare in questi anni. E l'ha fatto perché l'Italia, in questi anni, è sempre stata richiamata, per proprie responsabilità, alla realizzazione degli impegni che prometteva e che non manteneva. Il fatto che oggi, giorno dopo giorno, le riforme stiano diventando realtà ci dà maggiore autorevolezza e credibilità per dire con forza ai tavoli europei non soltanto che c’è bisogno di una più forte azione nel Mediterraneo e nel Medio Oriente ma anche e soprattutto che la politica economica europea di questi anni non ha prodotto i risultati sperati. Se finalmente c’è un'assunzione di responsabilità e si prova a «stressare» l'aspetto della crescita anziché quello della sola austerity, come dal semestre in poi abbiamo cercato di fare anche con il contributo italiano, se c’è questo, allora la discussione sul rapporto dei quattro presidenti o dei cinque presidenti può avere un senso. Ma se la discussione è immaginare un livello di governance diverso per far le stesse cose fatte fino ad oggi, è bene che si sappia con forza che si sta semplicemente continuando ad andare nella direzione sbagliata con una governance diversa. Ecco perché ho qualche resistenza – sono anche criticato all'interno dei nostri amici di Governo – per una qualche timidezza sull'esporre personalmente l'Ufficio del Presidente del Consiglio a una posizione specifica e puntuale sui temi della governance dei cinque presidenti. Abbiamo fatto i documenti, abbiamo scritto, hanno lavorato i tecnici, hanno lavorato i politici, ha lavorato ovviamente per primo il Ministro Padoan, ma il punto forte di discussione ancora non c’è stato, perché la prima discussione sul rapporto è stata fatta per circa venti minuti nel Consiglio europeo di giugno e basta. Ovviamente c'erano delle emergenze (c'era l'immigrazione, c'era la Grecia, c'era la politica estera), ma se non c’è questo lavoro qui credo non ci sia lo spazio per nessun tipo di valutazione politica seria dei prossimi anni in Europa.

  Quindi, la discussione sulla questione del rapporto dei cinque presidenti la facciamo volentieri, ma partiamo da un assunto: bisogna cambiare linea. In questo senso – e ho davvero concluso – trovo che il periodo che si sta aprendo in Italia e in Europa è molto interessante. Ci sarà un breve accenno, da quello che ho capito, del Primo Ministro Cameron sul grande tema del referendum inglese sull'ipotesi di uscita dall'Europa. Sarà nel 2017 – ragionevolmente nel 2017, perché ci sono anche altre ipotesi, ma ce lo dirà il Governo inglese – e nel 2017 si svolgeranno elezioni fondamentali in Francia nel mese di maggio e in Germania nel mese di settembre. Nel 2017 assisteremo al primo anno della nuova amministrazione americana, che naturalmente non avrà impatto immediato sulle scelte di politica europea, ma è il nostro principale partner e alleato; e nel 2017 l'Italia avrà una duplice responsabilità, una verso la storia, i sessant'anni del Trattato di Roma, e una verso il futuro, la presidenza del G7. Noi arriveremo a quell'appuntamento – questo è l'auspicio del Governo e credo della maggioranza – avendo terminato un complicato percorso di riforme. Sono riforme che, come è noto, non ci vedono tutti sulla stessa linea d'onda in termini di giudizio di merito, ma sono oggettivamente delle riforme strutturali storiche per l'Italia: la riforma della Carta costituzionale, in primis, la riforma della legge elettorale, la riforma del mercato del lavoro, la riforma della pubblica amministrazione, la riforma del sistema educativo; e anche a questo sono ispirate alcune misure della legge di stabilità che dalla prossima settimana, da giovedì, inizieremo ad affrontare in sede di Governo prima e poi al Senato.

  Ma c’è un punto chiave: se l'Italia avrà fatto questo, il percorso delle riforme costituzionali, terminando, ragionevolmente, nell'autunno del 2016 con il referendum, avremo di fronte a noi un periodo prima delle elezioni, che per noi andranno a scadenza naturale nel febbraio 2018, per essere punto di riferimento di un grande dibattito europeo e mondiale. Insomma, se l'Italia, finita la parte dei propri compiti a casa, come è stato spregiativamente detto da tanti, è nelle condizioni di poter portare la propria voce in questi consessi, non sarà semplicemente più forte l'Italia: sarà più forte l'Europa. Perché in questi anni – questa è la mia tesi – è mancata la forza dell'Italia nei tavoli che contavano.

  È mancata per mille motivi: qualcuno dice per incapacità, qualcuno dice per complotto; qualcuno dice perché non siamo stati in grado, qualcuno dice perché non ce l'hanno fatto fare. Non mi interessa aprire la discussione su questo: mi interessa dire che abbiamo di fronte a noi un periodo fertile, un periodo felice, felix. Dobbiamo però avere la forza di dotarci dello spirito di chi non ha paura di inventare cose nuove, anche in politica.

  Questa mattina alle 8 ho incontrato due italiani, Giovanni De Sandre e Gastone Garziera. Sono due ragazzi, allora erano ragazzi, che, esattamente cinquant'anni fa, il 14 ottobre 1965, a New York (Gastone no perché era a fare il militare, ma aveva lavorato al progetto), guidati da Pier Giorgio Perotto, presentavano una straordinaria innovazione italiana, il Programma 101. Dai laboratori della Olivetti nasceva il primo personal computer; poi, per mille motivi, la storia ha dimostrato che quella bellissima intuizione, non dico che fu strappata via, ma quel personal computer, il primo personal computer della storia (sta al Museo del computer a Mountain View, sta al MoMA come qualità di design: fatemi ricordare anche Mario Bellini, che aveva disegnato quello straordinario strumento), quel primo personal computer, quel calcolatore straordinario era nato, è nato dall'intelligenza di alcuni ragazzi piemontesi, che, in terra di Ivrea e nel Canavese, avevano avuto la possibilità e la forza di immaginare un futuro che altri non avevano neanche immaginato.

  È una storia meravigliosa che va a finire forse male per qualcuno, perché è un'intuizione da cui poi sono nate le grandi compagnie mondiali che hanno sede soprattutto in America, non soltanto in America. Ma è secondo me quello che dovrebbe muoverci: lo spirito di chi, vedendo un mondo che cambia, prova ad inventare qualcosa di nuovo. Io penso, spero e credo che questo Parlamento, nel periodo che lo separa da qui al 2018, terminata la fase anche dura di discussioni forti sulla grande questione delle riforme strutturali, aiuti tutte e tutti ad essere capaci di costruire, per il futuro dell'Europa e del mondo, un'Italia un pochino più forte e più solida di come è stata fino ad oggi

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